Pagina 106 - costume di nettuno 2

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Incenzo
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Il
saltarello
era il caratteristico ballo pra-
ticato nello stato pontifico, soprattutto
intorno a Roma, al suono del liuto e del
tamburo «Il saltarello è una scena completa
di dichiarazione d’amore. saltando e giran-
do l’uno intorno all’altro, i ballerini espri-
mono uno per volta la passione che fingono
d’avere, il desiderio di piacere, la gioia o il
dispiacere, la gelosia e la speranza; infine il
ballerino mette un ginocchio per terra per
commuovere la sua
cara
, che si avvicina a
lui progressivamente sempre ballando;
quando lei si inchina con un sorriso, come
per chiamare un bacio, l’amante si rialza
trionfante e qualche salto vivo e leggero
conclude la pantomima»
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.
numerose incisioni e un olio di straor-
dinaria luce e vivacità documentano la pas-
sione del
saltarello
delle donne di nettuno
basti citare le incisioni di dietrich Wilhelm
Lindau (1799-1862) il
Saltarello
(1832)
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Octoberfest
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(ottobrata romana 1832); carl
heinrich Rahl (1779-1843)
l’Attesa
(1842)
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ed infine la tela di Johann Gottfried maas
(attivo 1828-1848)
Bambini che ballano il sal-
tarello
sullo sfondo del borgo di nettuno
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.
Le nettunesi non mancavano di parteci-
pare alle ottobrate romane, come documen-
tato dalle incisioni del Lindau, un resocon-
to interessante ci viene da schweiger-
Lerchenfeld che nella seconda metà
dell’ottocento condussero un’attenta
inchiesta sui costumi femminili. «nei gior-
ni di ottobre le tessitrici, le sarte, le cucitrici
vanno a fare le così dette
ottobrate,
ossia
scampagnate fuori porta. In questi giovedì
d’ottobre le donne romane ritraggono dalle
antiche baccanti, sì sformato è il bagordo
che menano sulle carrozze: per ogni carroz-
za ve ne stanno dodici o tredici; tre a casset-
ta, sei nella cassa, tre nel mantice, battendo
i cembali, incoronate d’ellera e di rose.
Le son rosse infiammate in viso, canta-
no a squarciagola, e talora hanno dietro,
seduti sull’asse sospeso, tre uomini mezzo
cotti, i quali con vociacce fanno bordone ai
canti e batton le
nacchere
a cadenza coi cem-
bali. escono di città, e tutte si rimbucano
nelle taverne suburbane ove s’apparecchian
loro le tavole sotto le pergole, da cui pendo-
no i grappoli nericanti, che esse non gusta-
no, per attaccarsi ai fiaschi, tanto che le son
già brille prima che s’incominci il desinare.
Le tavole son tutte sparse di foglie di
vite, d’ellera e di corimbi. comincia la
zuppa di trippe di vitello condite con la
panzetta di porco, e alcune, per fare il
brodo più gustoso, versanvi dentro una
foglietta di vin brusco. si vien poscia al
gallinaccio ripieno di salciccia e di bon-
diola col pastone; indi il garofanato di
manzo, e per ultimo la coscetta o l’arnio-
ne di castrato. Poi la pizza coll’aglio e col
pepe, e poi bere e bere. Quando poi sono
rimpinzate e avvinazzate, eccole sul
prato a dar nei cembali e nelle nacchere, a
fare il ballo tondo; che si pone le mani ai
fianchi, e, tragittando le gambe all’impaz-
zata, si diguazzano, si scontorcono, e
scambiettano, spiccando salti e trinciando
caprioletti a mezz’aria; talora vi sottentra-
no i maschi, e allora fanno il riddone, la
moresca, la gagliarda e la monferrina. Poi
vengono i livori, le invidie, le gelosie dei
giovinotti»
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. Il momento più solenne per
indossare gli abiti più preziosi era costi-
tuito dalle solennità religiose e lo sfilare a
Roma durante gli anni santi, i pellegri-
naggi, ma soprattutto le feste patronali,
una colorita testimonianza ci viene dal
Gregorovius: «Per formarsi un’idea preci-
sa del pittoresco costume nazionale di
questi nettunesi bisogna assistere ad una
delle loro feste religiose.
Le donne dividono le chiome a metà
del capo, attorcigliando i capelli lungo la
testa, senza farne una treccia, ma annodan-
doli con nastri, verdi le ragazze, rossi le