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CORRADINO
DI SVEVIA

della dinastia
Hohenstaufen
1252-1268

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PERSONAGGI ILLUSTRI

Figlio di Corrado IV e di Elisabetta di Baviera; nato a Landshut nel 1252; orfano del padre già a due anni, Corradino di Svevia fu allevato dai parenti materni. Era solo un adolescente quando, nei primi mesi del 1267, fu raggiunto nel castello di Hohenschrwangau da una delegazione di irriducibili ghibellini italiani e di esuli siciliani, fra cui i Conti Galvano e Federico Lancia, che offrivano alla causa centomila fiorini d'oro, e i fratelli Corrado e Marino Capece. Costoro recavano seco non solo le speranze, ma anche il sostegno di una resistenza organizzata e ramificata in tutta la penisola; tutt'affatto condizionata dai selvaggi metodi di repressione angioina; comunque pronta alla riscossa.
Le istanze italiane furono sostenute dal Grande Elettorato Tedesco, allarmato dal richio che la ingerenza clericale l'avrebbe privato anche del controllo del Regno di Germania.
Nel giovane Staufen prevalse l'orgoglio della razza più che la prudenza: carismatico e coraggioso quanto il grande nonno, a lui dimestico solo attraverso il racconto delle leggendarie gesta; invocato accoratamente dai partigiani italiani; privo dell'opportuna consistenza militare, ma armato di idealismo; col Federico d'Austria, egli accettò di battersi contro l'usurpatore e i suoi alleati avendo cura, comunque, di comunicare al Papa che la sua guerra era dichiarata contro l'Angiò e non contro la Chiesa.
Verso la fine di settembre del 1267 mosse da Augusta, con un esercito di circa dodicimila uomini. Il dieci ottobre era a Trento; il venti fu accolto festosamente a Verona da Martino della Scala e dai Ghibellini fuorusciti di Padova, Vicenza, Mantova, Ferrara, Brescia e Bergamo.
Pisa e Pavia gli inviarono aiuti economici e militari; i Saraceni di Lucera, già in stato di allerta, lo salutarono discendente di Federico II; molti centri di Calabria, Puglia ed Abruzzi insorsero a suo favore; Corrado Capece a bordo di una nave pisana andò a Tunisi a garantirsi l'adesione di Enrico di Castiglia, mentre il Papa dotava della sua benedizione la Lega della Pace e della Fede, costituitasi fra Milano, Como, Lodi, Vercelli, Novara, Parma, Reggio, Piacenza, Cremona, Modena.
Corradino lasciò Verona il venti gennaio del 1268.
Passato per Pavia, ove si trattenne circa un mese, si recò nel savonese: a Vado lo aspettavano dieci galee pisane sulle quali si imbarcò con quattrocento suoi cavalieri, mentre il resto della truppa proseguiva via terra.
Il quindici aprile fece sosta a Pisa, ove un mese più tardi lo raggiunse Federico d'Austria. La città gli tributò aperte manifestazioni di affetto e consistenti aiuti in denaro, uomini, cavalli e mezzi bellici. Fu poi allestita una flotta di trenta unità che trasbordò cinquemila soldati fra Calabria e Sicilia, infliggendo lungo il percorso gravi perdite alle milizie angioine.
Il Papa, preoccupato anche dai torbidi esplosi a Roma, nel giorno di Pasqua da Viterbo emanò l'interdetto sullo Svevo e sulle città a lui amiche malgrado egli proseguisse determinato, nella sua marcia verso il Lazio: i suoi partigiani ne sollecitavano la presenza a Roma.
Giunto in prossimità delle mura di Viterbo, sede della Corte pontificia, schierò l'esercito sotto le mura allarmando l'intero Episcopato: solo un monito!
Il ventiquattro luglio, finalmente fu a Roma: vi entrò attraverso Ponte Milvio, sotto lo sventolio dei gonfaloni staufici che accompagnarono il suo percorso fino al Campidoglio, ove era atteso da Enrico di Castiglia: cugino, ma nemico capitale dell'Angioino.
Fino a tutta la metà di agosto, Corrado ricevette ambascerie e delegazioni ghibelline della Lombardia, della Toscana, dell'Umbria e delle Marche. Il diciotto agosto, con un seguito di seimila uomini, fra cavalieri tedeschi e lancieri spagnoli, puntò verso l'Abruzzo per entrare nel suo amato Regno e liberare Lucera posta sotto assedio francese. Sulle sponde del lago Fucino, si era acquartierò Carlo d'Angiò nel tentativo di condizionarne la penetrazione nell'enclave pugliese.
Lo scontro si consumò a Scurcola, sotto Tagliacozzo: era il ventitre agosto quando, lungo le rive del Salto, si decisero le sorti del Mezzogiorno italiano ed il definitivo destino degli Hohenstaufen.
L'Angioino affidò la direzione della battaglia al genio militare di Alardo di Valery, Gran Ciambellano di Francia e Connestabile di Champagne. Egli divise l'esercito in tre schiere, ponendo la prima alle falde delle alture su cui si era accampato; alloggiando la seconda, composta di Provenzali, Lombardi e Guelfi di altre regioni, nella pianura ai bordi del fiume; insediando in una gola nascosta la terza, formata da ottocento cavalieri scelti, da utilizzarsi come riserva per un possibile agguato.
Corradino divise invece il suo esercito in due ali: affidò la prima, formata da Spagnoli, Toscani e Lombardi, alla guida di Enrico di Castiglia; si pose egli stesso, poi, alla testa della seconda, formata da mercenari tedeschi.
Gridato l'ordine di carica, guadò il fiume e incalzò i Francesi che non resistettero all'urto. Tuttavia, la caduta di Enrico di Castiglia dal cavallo creò disorientamento e scompiglio: la prima impressione fu che fosse caduto e morto Corrado stesso. La circostanza sconvolse le truppe; ne rese insicuri i movimenti, malgrado gli ANgioini si fossero dati ad una scomposta fuga; ribaltò il risultato della battaglia: Carlo, che non turbato dall'eccidio, aveva fatto voto alla Madonna di erigere una chiesa in quella pianura se fosse risultato vincitore, quando si rese conto dello sbandamento delle schiere nemiche dette un disperato ordine di affondo.
I frastornati ghibellini caddero a migliaia.
Nella stessa sera, egli comunicò al Papa la disfatta tedesca: "…O clementissimo Padre, io annuncio una grande gioia a Te e alla nostra Madre ! Consolatevi di tutte le vostre pene, riposate di tutte, le vostre fatiche ! Sorgi, te ne supplico, o Padre: vieni e mangia la caccia che il figliuolo ti ha apparecchiata…"
Assetato di vendetta e di odio, fece massacrare alcuni prigionieri romani facendoli prima mutilare e poi bruciandoli vivi. Ma non trovava Corradino che, a fronte del drammatico risultato, si era tempestivamente posto in marcia per Roma, ove giunse il ventotto agosto con Federico d'Austria, Galvano Lancia, Gerardo e Galvano di Donoratico di Pisa e lo stesso Enrico di Castiglia.
L'accoglienza era mutata e rendeva difficile ricollegare le fila della sbrindellate resistenza; la vita dello Svevo era in pericolo; il fronte delle solidarietà si era sgretolato: egli lasciò la città il trentuno e, sotto Astura, nel tentativo di raggiungere Lucera tagliando per l'Abruzzo, fu arrestato dagli sgherri di Giovanni Frangipane, antico ghibellino e amico dell'Imperatore Federico II.
Condotto in catene a Napoli, nello stesso Castel dell'Ovo ove languivano i figli di Manfredi, dopo un processo farsa Corradino fu giudicato colpevole di alto tradimento.
La sua avventura s'era conclusa: sfidando la sorte e vestito di quella stessa audacia dell'avo in viaggio pressappoco alla sua stessa età verso il trono tedesco, aveva preteso di esigere il maltolto nella continuità della gloriosa stirpe ma, impedito dal raggiungere il Sud ove forte si era organizzata la opposizione ai Francesi, il nuovo Puer Apuliae aveva assistito al fallimento del suo progetto di giungere in Sicilia.
Sconfitto; tradito; deriso, a circa due mesi dalla cattura, il ventinove ottobre del 1268, venne decapitato sulla Piazza del Mercato di Napoli, alla presenza di una folla indignata ed in tumulto per il dispregio tenuto anche dei trattamenti e dei diritti garantiti ad un prigioniero di sangue reale: un infame assassinio, più che un crimine politico.
Carlo d'Anjou aveva chiesto al Papa quale sorte assegnargli.
La risposta del Primate di Roma era stata lapidaria:" Mors Corradini, vita Caroli. Vita Corradini, mors Caroli."
Il frate e storico minorita beneventano Isidoro Cozzi riferisce come, una volta sul patibolo, il ragazzo disperatamente singhiozzasse: "Oh madre, oh madre mia, qual notizia avete a sentire", avendo cura con grande dignità del dolore materno, piuttosto che della sua stessa infelice sorte.
Storia e leggenda si annodarono nel riferire che, prima di porre il capo sul ceppo, egli abbracciasse con uno sguardo la piazza e poi, sfilatosi un guanto, lo lanciasse sulla folla: un aperto invito a vendicarlo; un'ardimentosa e provocatoria sfida agli usurpatori; una sollecitazione alla continuità dinastica.
Storia e leggenda si riannodano nel sostenere che il guanto fu raccolto da un uomo protetto dall'anonimato:era Giovanni da Procida, uno dei personaggi più fedeli alla memoria del grande Federico, al cui capezzale era restato fino alla fine nella sua funzione di medico di Corte.
E' certo che Napoli versò lacrime di dolore e di vergogna per quell'orrendo delitto commesso in faccia alla Storia e ad un Popolo sbigottito.
E' certo che Elisabetta di Baviera venne ad onorare le spoglie del figlio morto in solitudine "...ed una statua di lui ed una pietosa iscrizione nella Chiesa del Carmine parlano del cordoglio di essa e le ricche dotazioni che lasciò a quei frati per suffragio dei suoi diletti..."
Sullo stesso ceppo, caddero le teste di Federico d'Austria, di Bartolomeo Lancia, di Gerardo e Galvano di Donoratico. Ai cadaveri fu negata la sepoltura e fu la gente comune a pietosamente coprirli di sassi. La vita fu risparmiata al solo Enrico di Castiglia, ma a condizioni più che umilianti.
Lo scotto dell'appartenenza ghibellina fu duramente pagato da tutti i più fedeli sostenitori della causa di Manfredi: anche Marino e Giacomo Capece perirono sulle forche napoletane dopo orrende torture, mentre il fratello Corrado resistette a Centorbi fino a che, alla fine dell'aprile del 1270, fu costretto alla resa: accecato e deportato a Catania, vi fu impiccato.
L'eredità sveva ricadde su Costanza, andata sposa al Sovrano aragonese: ella fu invocata e salutata Regina di Sicilia durante i Vespri, sicché Pedro, cacciati dall'isola i Francesi e l'odiato Angioino, pose termine alle sciagure che avevano oppresso e funestato l'Italia Meridionale e la famiglia degli Hohenstaufen.
La figlia di Manfredi fece rivivere il mito fridericeo, ma l'inizio della fine del Medio Evo frantumò quel che dell'Impero era restato.
L'Angiò, cui i Siciliani avevano opposto la coraggiosa incoronazione di Corradino, venne una sola volta e di passaggio in Sicilia; punì gli atteggiamenti antifrancesi diffusi nel Regno con lo spostamento della capitale da Palermo a Napoli; condusse un'aspra e ritorsiva politica fiscale; impose il veto di porto d'armi; istituì la perquisizione personale, oltraggiosamente estendendola anche alle donne.
Atroci repressioni connotarono il suo governo e incorniciarono le sue nuove nozze quando, vedovo dell'ambiziosa Beatrice, il diciotto novembre del 1268 sposò Margherita di Borgogna: il matrimonio era stato enfatizzato dalla generosa emanazione di una amnistia generale a tutti i partigiani degli Staufen. Si trattò di una crudele beffa poiché, esclusi dal provvedimento, tutti i Tedeschi, gli Spagnoli, i Catalani, i Pisani e quanti si erano armati in favore di Corradino furono espropriati dei beni e condannati a morte.
Carlo era ormai Signore dell'Italia, esercitando autorità su quasi tutta la penisola grazie al sostegno dei guelfi del Centro e del Nord e grazie ai Romani, che gli avevano attribuito il decennale incarico di senatore.
Ma l'epilogo della sua vicenda politica era paradossalmente iniziato proprio con la morte di Manfredi dopo la quale, nel tentativo di imporsi con la forza, aveva nominato Viceré di Sicilia Guglielmo d'Étendart: il ripugnante autore di spietate azioni sanguinarie, a supporto degli onerosi balzelli imposti a vendetta e sprezzo dell'incoronazione siciliana dell'ultimo Svevo.
Introdotto il biglione, una moneta della consistenza di 1/48 di argento, legiferò il taglio della mano destra per chi ne avesse rifiutato il corso legale se pubblico ufficiale, e il marchio a fuoco sulla fronte se privato cittadino.
Ma, in particolare per i Siciliani, la più dolorosa ed insultante delle sue prescrizioni fu l'introduzione dello jus primae noctis: una primitiva pratica, contro la quale il contagio della rivolta premeditata e organizzata esplose in tutta la sua violenza il trentuno marzo del 1282, in coincidenza del lunedì dell'Angelo.
Carlo nutriva, in quella fase della sua avida vita politica, forti appetiti sul trono di Bisanzio: il legittimo allarme dell'Imperatore Michele VIII Paleologo si era coniugato con la reazione popolare al regime di oppressione fiscale ed aveva saldato consistenti alleanze attorno alla rivolta.
I partigiani svevi, individuando nei Genovesi un punto di forza e di unione fra Sicilia, Corte Bizantina e Corte Aragonese, attrezzarono la resistenza usando la scintilla accesa dal soldato francese Drouet. L'episodio scatenante, tradottosi in un segnale di generale sollevazione, si verificò sul sagrato della chiesa di Santo Spirito di Palermo quando provocatoriamente egli affrontò una ragazza velata, con la pretesa di perquisirla.
SI assume che la giovane donna fosse Imelda, la figlia di Giovanni da Procida: l'uomo che non s'era dato pace della morte di Federico; che non s'era arreso alla tragica fine di Manfredi; che non s'era dato ragione della brutale decapitazione di Corradino.
Travestito da frate, per anni egli aveva viaggiato per mantenere contatti con la rete ghibellina italiana e per favorire l'ascesa di Pedro d'Aragona. S'era recato financo alla corte d'Oriente per sollecitare l'Imperatore Michele a finanziare la sollevazione. Infine, sotto il pontificato del francese Martino V, aveva concluso le fasi finali della ribellione, guadagnandosi poi il titolo di Consigliere del nuovo Re. Era appena riuscito a realizzare il sogno di vedere ancora sul trono una sveva quando, dopo trent'anni di trame politico-diplomatiche, morì.
Ma la Sicilia aveva fatto giustizia alla Storia e alle ragioni degli Staufen.
La Sicilia aveva rivendicato in quel suo bagno di sangue il proprio onore e l'appartenenza ai fasti normanno/svevi.
La Sicilia aveva vendicato le mostruosità dell'usurpazione francese e le prevaricazioni di una Chiesa avida e intollerante.
Tuttavia, assieme all'intero Sud era stata martoriata da rovine e lutti e, dopo mesi di incessabili torbidi, aveva subito l'ultimo tentativo di Carlo di occupare Messina.
Le truppe francesi furono invece definitivamente respinte l'otto agosto del 1282, grazie alla coraggiosa attività di due popolane, anelli della resistenza armata: Dina e Clarenza, celebrate nelle due figure bronzee che scandiscono le ore sul campanile della cattedrale.
Il Parlamento di Sicilia, sancita la impossibilità dell'Anjou a forzare il blocco messinese, finalmente poté chiamare al trono Pedro d'Aragona incoronandolo il quattro settembre 1282.
Carlo d'Angiò diventava da quel momento un elemento da rimuovere: egli non aveva solo sconfitto Manfredi; non aveva solo brutalmente assassinato l'adolescente Corrado; non aveva solo umiliato i diritti di sudditi colpevoli di onore alla memoria: era stato il feroce carnefice delle speranze di un intero Popolo.
E la sua politica aveva dato ormai corso ad una nuova fase storica e ad uno strappo irreversibile delle estreme regioni del Mezzogiorno dal resto dell'Italia: esse, preda di un involuto degrado sociale, culturale ed economico, furono espropriate di civiltà e di tradizioni e quella felice esperienza di convivenza plurirazziale e pluriculturale di cui il Mezzogiorno in generale e la Sicilia in particolare s'erano fatti portatori, si era definitivamente conclusa.


CORRADINO DI SVEVIA

di Aleardo Aleardi

Mutiam dolore. Sull’estremo lembo
De la cerulea baia, ove i fastosi
Avi oziar nei placidi manieri,
Ermo, bruno, sinistro èvvi un castello.
Quando il corsaro fe’ quest’acque infami,
La paura lo eresse. Ivi da lunghi
Anni una fila d’augurosi corvi
É condannata a cingere volando
Ogni mattin le torri: ivi sui merli,
Fingendo il suono di cadente scure,
La più flebile fischia ala di vento:
Ivi pare di sangue incolorata
L’onda che sempre ne corrode il fondo:
Poi che una sera sul perfido ponte,
A consumar un’opera di sangue,
In sembianza di blando ospite stette
Il Tradimento.
Vuoi saperne il nome?
O fida come il sol, tu che non sai
Che sia tradire, deh! sègnati in prima
Col segno de la croce, Itala mia.
È il Castello d’Astura.
Un giovinetto
Pallido, e bello, con la chioma d’oro,
Con la pupilla del color del mare,
Con un viso gentil da sventurato,
Toccò la sponda dopo il lungo e mesto
Remigar de la fuga. Aveva la sveva
Stella d’argento sul cimiero azzuro,
Aveva l’aquila sveva in sul mantello;
E quantunque affidar non lo dovesse,
Corradino di Svevia era il suo nome.
Il nipote a’ superbi imperatori
Perseguito venìa limosinando
Una sola di sonno ora quieta.
E qui nel sonno ei fu tradito; e quivi
Per quanto affaticato occhio si posi,
Non trova mai da quella notte il sonno.
La più bella città de le marine
Vide fremendo fluttuar un velo
Funereo su la piazza: e una bipenne
Calar sul ceppo, ove posava un capo
Con la pupilla del color del mare,
Pallido, altero, e con la chioma d’oro.
E vide un guanto trasvolar dal palco
Sulla livida folla; e non fu scorto
Chi ‘l raccogliesse. Ma nel dì segnato
Che da le torri sicule tonaro
Come Arcangeli i Vespri ei fu veduto
Allor quel guanto, quasi mano viva,
Ghermir la fune che sonò l’appello
Dei beffardi Angioini innanzi a Dio.
Come dilegua una cadente stella,
Mutò zona lo svevo astro e disparve.
E gemendo l’avita aquila volse
Per morire al natìo Reno le piume;
Ma sul Reno era un castello,
E sul freddo verone era una madre,
Che lagrimava nell’attesa amara:
- Nobile augello che volando vai,
Se vieni da la dolce itala terra,
Dimmi, ài veduto il figlio mio?-
-Lo vidi;
Era biondo, era bianco, era beato,
Sotto l’arco d’un tempio era sepolto.-




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